FONS VITAE. MUSEO MARINO MARINI
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In occasione del convegno “Rinascenza come Resurrezione. Il Santo Sepolcro di Leon Battista Alberti nella Firenze del Quattrocento”, quattro artisti di fama internazionale – Peter Brandes, Maja
Lisa Engelhardt, Susan Kanaga e Filippo Rossi – riflettono sul mistero di cui parla il capolavoro albertiano: la resurrezione di Gesù e la prospettiva di una vita nuova. Il titolo della loro installazione, Fons Vitæ – Fonte di Vita, echeggia san Paolo, che per primo collegò le acque del Battesimo con la Pasqua, insegnando che i «battezzati in Cristo Gesù» – quelli che scendono nel fonte cioè – sono «sepolti insieme a Lui ... affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti ... così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). Il Sepolcro dell’Alberti rimanda infatti al Battistero fiorentino, citandone le tarsie marmoree bianco-verdi, e questa allusione definisce l’impianto della mostra. La base del Sepolcro quattrocentesco tracciata sul pavimento viene trasformata in luce da Peter Brandes, mentre a destra e sinistra sculture di Maja Lisa Engelhardt ne evocano il miracolo. Sopra le scale, poi, tra i fiori dipinti da Susan Kanaga, Filippo Rossi raffigura il mondo nuovo evocato nell’Apocalisse, in mezzo al quale scorre «un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo» e cresce «un albero di vita». Le pietre realizzate dalla Kanaga lungo il fiume, aprendosi ed emanando luce, ricordano che quell’albero «dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese» e che le sue foglie «servono a guarire le nazioni» (22, 1-2).

 

Per parlare dell’arte di Filippo Rossi, l’unico punto di partenza possibile è la sua fede cristiana. Rossi vive la sua creatività, e concepisce le sue immagini, nel dinamismo che il Nuovo Testamento descrive come fede. «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede», afferma l’autore della Lettera agli Ebrei (11,1), aggiungendo quasi subito che «per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo invisibile» (11,3). Nel latino della Vulgata il termine oggi tradotto come “fondamento” è meno concettuale, più fisico: substantia, ed è così che Dante lo travasa, dicendo: «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi; / e questa pare a me sua quiditate» (Par. XXIV, vv. 64-65). Filippo Rossi, credente e fiorentino, dà sostanza alle cose in cui spera, “argomentando” cose non apparenti, convinto che, come il mondo materiale ha avuto origine dalla immateriale parola di Dio, così l’immagine visibile può nascere dall’azione dell’invisibile Spirito, perché in Gesù Cristo la Parola si è fatta carne. Come suggeriscono le sue opere in “Fons Vitæ”, fondamentale per Rossi è questa tensione tra “visibile” e “invisibile”. La sua tesi di laurea, all’Università di Firenze, dove ha studiato storia dell’arte, era sulle paci rinascimentali: le piccole tavole dipinte o in metallo, sbalzato oppure inciso, poste sugli altari durante la celebrazione della messa, che poi venivano portate ai fedeli perché questi le baciassero al momento della comunione del celebrante. All’epoca i laici ricevano il sacramento poche volte all’anno, e le paci, con immagini allusive al tema eucaristico – la Crocifissione, la Imago pietatis, il Compianto – invitavano a unirsi in modo immaginativo al sacerdote che consumava materialmente il pane e il vino transustanziati. L’immagine visibile sostituiva la realtà invisibile, cioè, senza però confondersi con essa, perché nel cattolicesimo latino l’immagine rimane solo immagine, mentre il pane e vino consacrati della messa sono “reale presenza” del corpo e sangue di Cristo. Le paci presupponevano, nei fedeli che le contemplavano e baciavano, la capacità di capire che la “realtà” era altrove, non nella raffigurazione, ma nella “presenza”, non nella visibilità di eventi presentati agli occhi, ma nell’invisibile Persona adorata nel cuore. Un passo ulteriore compiuto da Rossi fu infatti quella che nella tradizione cattolica è denominata “adorazione eucaristica”. Quando, nella parrocchia che Filippo frequentava da molti anni, s’instaurò la pratica di esporre agli occhi dei fedeli in modo continuativo il pane consacrato, invitando all’adorazione, egli fu tra quelli che garantivano la presenza notturna, recandosi in chiesa anche nelle ore piccole per restare inginocchiato davanti al disco di pane bianco esposto in un contenitore d’oro, l’ostensorio, in mezzo a candele la cui fiamma viva segnala la presenza del Salvatore. Queste componenti atmosferiche – i punti luce nel buio, l’aura del silenzio e di solitudine condivisa – segneranno l’arte di Rossi. Ricordiamo poi che l’esperienza mistica di cui stiamo parlando ha precise coordinate sia filosofiche che estetiche: da una parte lo scarto sperimentale tra “segno” e “realtà”, e dall’altra il bianco dell’ostia e delle tovaglie d’altare, l’oro dell’ostensorio e dei candelabri, il mobile brillare dei ceri. Giovanni Paolo II, in un testo che Rossi lesse appena pubblicato, la stupenda Lettera agli artisti del 1999, evocava tale estetica liturgica con una frase del teologo Pavel Florenskij che, parlando delle icone russe, diceva: «L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, e ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste». La scelta del Rossi – visibile nella mostra “Fons Vitæ” – , di arricchire
di foglio d’oro le sue opere, nasce in questo clima.

Timothy Verdon

 

FONS VITÆ.

PETER BRANDES, MAJA LISA ENGELHARDT, SUSAN KANAGA, FILIPPO ROSSI.

Firenze, Museo Marino Marini 24 aprile-6 giugno 2022.  Florence, Museo Marino Marini 24 April–6 June, 2022

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